Ritratto da nascondere
In una delle trentaquattro· liriche di questo volumetto la concezione e l’ispirazione poetica che le sottendono salgono alla coscienza teorica e critica dell’Autore, che così sommariamente le enuncia per un accostamento simbolico: sul vecchio tronco di un ulivo, scavato di rughe profonde e roso dal muschio che ne succhia la linfa, pur splendono le foglie, volgendo in gaudio pacato il patimento di quello stento vegetare: «così da fonde radici terrene / rompe, fiore lucente, la poesia. / E il poeta va tra gli uomini / con l’anima buona; / volge l’oscuro dolore / in serena feconda malinconia» (L’albero d’ulivo).
Nei suoi termini immaginosi, e perciò genericamente allusivi, questa dichiarazione di poetica parrebbe ripetere l’antica concezione catartica della poesia, o l’altra che la crede consolatrice dei mali del vivere o evasione e distrazione da essi, anche se l’Autore dà esito non gioioso a quella origine dolorosa, bensì di «serena e feconda malinconia »: quella, ovviamente, che il Leopardi chiamava {( dolcissima e divina ». Ma a tenerci nell’interpretazione esatta soccorre una più puntuale e razionale enunciazione, espressa con spirito addirittura polemico e protestatario nella lirica A un critico ostile: attraverso le contestazioni che questo critico muove alla materia e alla forma della sua poesia («O tu che mi misuri l’universo, / neghi cielo e respiro / al mio rito dell’ombre, o tu che in fatui / balenii d’acutezze jungheggi e chiami / ‘ istanza regressiva’ l’insistito / tormento di tentare ogni confine / alla mia terra e ridire il destino / della bestia scacciata dalla tana » … ), l’Autore non solo enuncia, legittimandoli, la natura e l’ambito del proprio poetare, ma così ne definisce l’ispirazione nell’apostrofe, non sappiamo se di maledizione o di pietà, che rivolge al suo critico: « possa sentire sul tuo cuore i nudi piedi dei morti del mio Sud, i morti di fame e solitudine nei secoli, e tremare a quel fiato di rancore che sale dalle viscere terrene la notte di novembre ch’essi passano sotto poveri lumi di finestre. Possa, alla svolta della Palombara, imbatterti negli occhi di mia madre».
L’ispirazione di queste liriche nasce dunque dalla condizione dolorosa della gente e della terra che l’Autore qui ed altrove chiama « il mio Sud », e non tende a darne rappresentazione estetica di bellezza formale, come giglio che trasformi in candido fiore il fimo che l’alimenta, ma a svelarne nudi e fermi gli aspetti più caramente dolenti alla propria umanità, con la vibrazione etica storica sociale e religiosa, che essi suscitano nell’animo che vi partecipa e se ne fa insieme coscienza.
La poesia è quindi, per il nostro Autore, identificazione e rivelazione lirica di quella atavica civiltà contadina, come del resto esplicitamente dichiara un’altra lirica, forse proprio per questo collocata alla fine del libro, quasi a dargli conclusione ed epigrafe.
Citata all’inizio la sentenza foscoliana che nella funzione civile delle tombe dei grandi perentoriamente proclama la perpetua fecondità del retaggio storico («A egregie cose il forte animo accendono / l’urne dei forti»), l’Autore si volge ai morti del suo Sud: forti essi furono, ma nessun poeta ha trasmesso l’eroismo della loro virile resistenza al servaggio, alla miseria e alla solitudine; sicché conviene ch’egli ne tenti l’impresa, egli che ne rivive la sorte e perciò ne conosce l’opera e l’animo, abbozzandone un ritratto pur frammentario e perciò più da nascondere che da mostrare, celebrandoli in un messaggio la cui probabilità d’esser noto non supera quella dell’appello chiuso nella bottiglia affidata alle onde marine; onde l’immagine: «la mia bottiglia / getto in un mare immobile e notturno ».
A parte la modestia, l’insoddisfazione o la civetteria di questa immagine, l’Autore ci pone di fronte a una professione di poetica dalla profonda coscienza etica, cui dà ancora maggior risalto la lirica A un politico del Sud, ove la poesia affronta le battaglie della vita in risentito contrasto con l’opera miserabile di un comiziante, che delle sventure del popolo fa sgabello al proprio successo e strappa applausi dalla folla con promesse sacrilegamente bugiarde:
« Dove il mio Sud umilia il vecchio cuore,
scioglie i nodi del pianto,
apre il dolore in solchi alla speranza,
ivi son le tue ingorde
radici, e si dilata sul clamore
delle folle mendiche
il fiore del tuo nome. A te
gloria sui palchi; a me, povero scuro
poeta, le ragioni dei miei morti.
Comune a noi la terra; tu l’aggiri
come un falco di spire inesorabili,
ed io come il rondone
disperso e poi rimasto
a nidi d’invernale solitudine».
Così dunque l’Autore definisce, almeno parzialmente, la propria concezione della poesia, e di essa compenetra le sue liriche che, tranne un paio di bozzetti impressionistici (La sorgente, Rugiada) informati di franca giulività descrittiva, ritraggono appunto la condizione esistenziale della sua terra: la «vallata dei trenta borghi» che si stende dal Massico al mare, idealmente estesa a tutto il Mezzogiorno.
Risalendo, pei secoli che furono, alle origini mitiche della creazione, nella quale egli già vede segnato il doloroso destino del proprio popolo («Forse noi siamo in Dio / come un segreto amore; / forse un rimorso da lasciar sepolto. / E forse il giorno della creazione / l’uomo del Sud solcava di presagi / la luce della prima estasi a Dio. / E Dio vedeva il volto / di Lazzaro accecato dalla morte / sotto il suo vano cenno di risorgere », [Forse un rimorso], il Filippelli medita, con senso religioso che oscilla tra rassegnazione pietosa e rivolta blasfema, il triste fato che ha oppresso questa terra nei millenni e lentamente foggiato la dura pazienza della sua gente. E in tal modo si leva a un’interpretazione globale di questa civiltà contadina, non indagandone per via razionale le vicende storiche e gli aspetti etnologici e sociologici, ma liricamente intuendone l’atavica condizione, con sentimento di filiale e fraterna pietà, e rappresentandola in immagini. Se, ad esempio, lo sguardo gli si posa sull’erbe che nascono e vivono stente ai margini delle strade, per sorte tanto diverse da quelle che rigogliano in piena terra, ecco quell’erbe umanizzarsi, diventare immagine e simbolo del suo popolo, e addirittura identificarsi in esso, per magica metamorfosi:
« Nei secoli l’umana
erba del Sud sentì premere e andare,
ignari e ad arte, i passi aspri dell’uomo,
piegò senza morire, si distese,
raccolta ai nodi delle sue radici,
sulla lenta agonia della sua terra» (Erba)
Ecco, nella sintesi concisa d’una immagine, la condizione storica del Mezzogiorno. La quale però, come si vede, non muove l’Autore a protesta né, ancora meno, a odio, anzi lo stringe a desolata consapevolezza e partecipazione e a più forte amore della sua terra, per la comune inclinazione psicologica che rende i luoghi dove abbiamo sofferto più cari di quelli ove abbiamo gioito. Di qui la continua evocazione dei morti delle passate generazioni, l’ideale convivenza con loro, l’immaginarsi già con essi congiunto a rivivere il patimento secolare che ne oppresse le opere e i giorni.
Il canto assume perciò un tono di epicità, nel quale la tensione lirica, pur quando fa centro sulla persona del Poeta e dei propri cari o sulle sue memorie, si distende in una religiosa solennità, cui l’insistente ricordo dei morti conferisce una funebre mestizia e che avvolge vivi e trapassati nella perennità dei costumi, dei riti, delle fatiche, dei patimenti, in unione indissolubile con le forme della terra e con le acque, con l’aria, col cielo, che ne sono stati nei secoli immutabile cornice e matrice.
Non sempre, certo, il Filippelli raggiunge così alto livello, attratto com’è, a volte, dalla rievocazione di figure caratteristiche, che la tradizione popolare ha reso quasi mitiche ed emblematiche (il vecchio demente che trovò la morte nell’acqua sgorgante dal fondo del pozzo scavato nella sua vigna assetata [Clementino Vitelli]; la meretrice che sola ebbe animo, tra la folla inerte degli astanti, a raccogliere e comporre il. cadavere maciullato d’un suicida [Valeria del Tirrone]; la moglie dell’uomo soprannominato «Cavaliere» («a dileggio del suo fallo equino»), che, andata serva in paese forestiero, canta di notte nenie sommesse della sua terra per placare la brama degli amplessi perduti [Maria la Cavalera]; oppure dalla rappresentazione di fatiche rurali (le tessitrici di sporte di strame di Ombre sul Massico e le serve contadine di Cantavano sull’aie) o di riti religiosi, come la processione del Venerdì Santo e quella campestre per invocare la pioggia (Siccità).
Ma anche in queste più realistiche rappresentazioni l’ispirazione, trascendendo il documento descrittivo, investe quella società popolare con sentimento di fraterna pietà e l’eleva dalla sua realtà storicamente e geograficamente definita a condizione umana perenne. Sicché l’eventuale ascrizione di queste liriche alla letteratura regionale in genere e in particolare a quella del Mezzogiorno, benché legittimata da questi ed altri esempi tutti permeati dalla coscienza storica dello stato meridionale, non può avere che funzione classificatoria meramente contenutistica, dal momento che il «genere regionale », nonostante le connotazioni realistiche rese più incisive dalla frequente indicazione onomastica di paesi, monti, fiumi e persone e dall’inserto di versi di canzoni dialettali (Bianchi morti bambini, Cantavano sull’aie), si dissolve nella poesia che non ha confini di regioni né di nazioni, come accade dell’Aspromonte di Alvaro e delle Langhe di Fenoglio.
Anche perché l’immedesimazione del Filippelli nella società che rappresenta non si estende a riprodurne il linguaggio sul grande esempio del Verga e dei suoi seguaci, cioè a tradurre in lingua il loro dialetto, vale a dire la loro «cultura» intesa come modo di vivere, di sentire, di pensare e di credere. La sua è invece come la « voce» dello « storico» e canta l’ethos e il pathos della sua gente nella lingua letteraria nazionale, quasi a dar loro, nella trasposizione linguistica, più ferma aggettivazione e più larga partecipazione dell’universalità umana ..
Analoga universalità è dato cogliere nelle liriche che sembrano ispirate da una sorta di impressionismo soggettivo (Sera nella metropoli, Vidi una primavera, Migrazioni) e nelle quali invece domina l’antico tema del contrasto città campagna, non come ripetizione del topos letterario, che dall’età classica ha percorso tutti i secoli della letteratura sino a diventare oggi questione vitale del mondo intero, ma per meglio definire l’ambiente naturale della terra natia. La scoperta del quale infatti comincia proprio quando l’Autore ne ebbe primamente coscienza al primo distacco: «Eppure l’alba che partii, che un vento / di mare sobillava i miei pensieri, / mi parve somigliare nel destino / agli uccelli notturni della valle / sbattuti e crocifissi sulle mura.» (Eppure l’alba che partii). Da quel momento, guardandola da una condizione e da un ambiente che nell’ostile estraneità gli appaiono, al confronto, carcere che degrada e snatura, la terra natale gli si presenta con la sacralità e il fascino di un Eden perduto e, svelandoglisi nella sua identità (non storica, ovviamente, ma sentimentale e lirica), genera a sua volta nel Poeta analogo processo di personale identificazione, il cui itinerario comincia appunto dalle prime esperienze di quel mondo ancestrale, mitiche nel ricordo come le origini stesse della vita. Onde il doppio filo conduttore che si svolge nella maggiore e miglior parte di queste liriche: la storia morale di sé, e la parallela rappresentazione, nella poesia della memoria, della terra e della gente del suo Sud. Nel borgo nativo, di fronte alla striscia luminosa del mare lontano, la sua infanzia «si sbatteva / con lunghe ali di gioia, come un gabbiano »; lontano da esso, nella maturità, «cieca l’anima scava / come una talpa solchi nella terra» (Al mare). Dal momento del distacco la sua vita è diventata un’agonia, anche fisica, con «cadute del respiro / nelle notti cerchiate di filari / stupefatti di morti» (Eppure l’alba che partii), e l’abbandono della terra d’origine lo rimorde come un tradimento (« Quando il tradimento fu compiuto / e il mercante si giocò il poeta » (Addio alla terra), del quale si sente già condannato dai propri morti prima che da Dio: «Voi porterete, con tenue / passo, lontano le vostre lampade accese, / ed io sarò, nella notte / del rancore di Dio, / il ‘più solo dei morti, e non potrò / dirvi che vissi / con voi, nel sole della vita, lievi / giorni di una segreta carità. / Poi fui l’albero leso alle radici» (Il giudizio dei morti). Sente infatti d’aver infranto in sé, quasi ultimo anello d’una catena spezzata, la sacra legge della trasmissione di quell’ethos che è destinato a perpetuarsi immutabile nel tempo: « E noi consegneremo / ai nostri figli un cuore / coronato di spine, il nostro seme / tenace di gramigna, / come in te [il mare] 1′onda penetra di ritmo / l’onda che segue, per l’eternità » (Il mare e noi del Sud).
Sradicato dalla sua terra non cessa perciò di appartenerle nel ricordo . e nella nostalgia, amari e consolatori ad un tempo, che l’assalgono di continuo nel seno stesso della famiglia che ha generato: «Tu mi chiedi, sgomenta della luce / arida e chiusa dei miei sguardi», dice alla moglie nella lirica Sto con le loro voci, «antiche / parole, una certezza di cammino / per le nostre creature, chiami sogni / lontani, l’ombre nostre che si giunsero / all’acque del Volturno; ma non ho, / vedi, che mi trattenga alla mia sorte, / altro che la marea / sorda, implacata a battermi, / della speranza dei miei morti; e ancora / m’addosso al muro del sagrato, / davanti ai roghi della notte / di San Giuseppe, / spezzo il pane crociato / della fraternità con la mia gente. / Sto con le loro voci aspre, profonde / di pudore, di gioie ferme e tranquille / L .. ] Porto con me la loro morte, chiusa / nella mia scorza: frutto che matura ».
Questa fondamentale unità d’ispirazione mostra all’origine di queste liriche non l’occasione di impressioni contingenti o di vibrazioni estetizzanti, ma una realtà spirituale che sale dal profondo e che la coscienza lirica, indagandola nei suoi più fecondi elementi con tormentoso processo conoscitivo, riscatta dal pratico sentire e felicemente forma in immagini, per analogie, accostamenti e similitudini che denunciano l’atto creativo: «lento dolore che scavò la terra / nostra, come il giro mansueto / degli antichi fiumi »; «lasciatemi entrare nel vostro sguardo, / quando a un richiamo s’oscura / di ritrosie e tumulti» (Nostre donne); « nella luce / del giorno mi portavo sulle spalle, / come un agnello, il mio pezzo di terra» (Eppure l’alba che partii); «o figli, o mio / seme addensato di salmastre / tristezze e di rancori di recluso» (Figli); «mi parve / udire un vento leggero, / quasi un filo di gioia / sull’orlo delle foglie / morte: era la serpe felice, / del passo dell’uomo / in quella solitudine. / E poi vidi un liquido / di luce salire a dilatare / il respiro degli alberi » (Addio alla terra); « Donne nostre che stettero alle soglie / padronali cariatidi cui il sonno / del tempo antelucano piega il capo / sul cuore » (Cantavano sull’ aie); « Allora / eri una striscia, un tremore eri / fra un monte e un altro monte, esiguo / che non avrei potuto / di quella coltre vestire il mio sonno» (Al mare); «come / la serpe centenaria, così parte / di quel pezzo di terra e dei suoi miti, / che il contadino ne sente il brusio / familiare vicino, e non l’uccide» (Un tempo d’umiltà); « io vorrò riempire / l’arco del tuo cielo terreno / col pianto dell’allodola / quando ha perduto un’altra / delle sue strade verso l’infinito» (Parole alla madre).
Come emerge da questi esempi e da precedenti citazioni, alla personalità dell’ispirazione corrisponde almeno in parte quella dell’espressione: non proprio nel vocabolario, nella sintassi e nella versificazione, che si tengono, pur rinnovati, nell’ambito della nostra migliore tradizione; quanto nell’insieme dell’impasto linguistico, che, scarsamente influenzato dalla poesia ermetica e postermetica e palesemente avverso agli sperimentalismi delle avanguardie, tende alla chiarezza classica dell’espressione e, tranne qualche ridondanza aggettivante, all’essenzialità e alla nudezza del dire, con modi generalmente svincolati da definite ascendenze letterarie.
Il Filippelli non perviene certo ad una lingua e a uno stile sempre originali. Il suo vocabolario, egualmente lontano da ricercatezze letterarie e da supini abbandoni al parlato quotidiano (sono eccezioni «smog », «pulman », «orine », «fiasca », «allumata d’archi », «strada carrozziera », «ciuco in amore », che però trovano collocazione opportuna), da preziosismi arcaizzanti e da ostentate crudezze gergali, si attiene a un’equilibrata medietà, non priva di efficaci innovazioni semantiche nell’accoppiamento felice delle parole: «Ho scavato una pace nella terra / tradita che fu mia »; «covo un mio gesto sereno» (Figli);« apre il dolore in solchi alla speranza» (A un politico del Sud); «cantavano sull’aie l’antica / resa al destino, le canzoni / pacate di lontane schiavitù» (Cantavano sulle aie); «cieca l’anima scava / come una talpa solchi nella terra » (Al mare); «fiato di rancore» (A un critico ostile); «sbatterà l’ombra / del tuo sorriso sul nostro confine» (Parole alla madre); «la mia memoria / è artiglio sul cordone dell’asfalto »; «m’approda in cuore / oscuro flutto di preghiera» (Paese); «Trovò l’acqua e piegava al sortilegio / d’una luce materna» (Clementino Vitelli).
Analogamente la sintassi non si compiace di strutture complesse né si contrae in grumi opachi o si dissolve in irrelate serie discorsive. Di breve ossatura, è solitamente ristretta agli elementi essenziali, solo talvolta allargati a stilemi attributivi o appositivi e terminanti in clausole perentoriamente sentenziatrici.
Non mancano tuttavia liriche nelle quali il discorso procede per serie coordinanti, sempre incentrate però in uno stato psicologico, in un pensiero, in un’immagine, per lunghi periodi che spesso continuano di là dal punto, quando questo ha funzione di pausa più che di chiusura sintattica, come accade specialmente nei componimenti ove all’impianto narrativo o descrittivo subentra lo scavo serrato d’uno stato d’animo che non patisce distacchi logici, e la cui unità di ispirazione richiede l’unità sintattica.
A questi modi stilistici corrisponde in genere la struttura metrica, che solo in poche liriche (forse le più vicine al noviziato dell’Autore nel gusto del frammento lirico che isola una singola vibrazione poetica) elegge la misura breve di ternari, quinari e settenari; più spesso invece si articola sull’endecasillabo, che il Filippelli ama spesso scandire con ritmo sonante («Un’erba nasce a limiti di strade / e vive d’una gocciola di luce » (Erba); «e la mia gente tesa ad ascoltare, / in confusi presagi d’orizzonti» (Sera nella metropoli). Sono i casi in cui anche la scelta linguistica mostra compiaciuta osservanza della tradizione letteraria precedente alla rivoluzione dei nostri tempi. Invece nelle liriche più personali e che riteniamo appartenere alla maturità della sua formazione, il Filippelli lavora l’endecasillabo con la smorzatura melodica del gusto moderno, affrancandolo dagli accenti ritmici canonici e fortemente spezzandolo nella struttura sin tattica della frase e con enjembements, che encliticamente o proletticamente ne attraggono principio e fine nei versi contigui. I caratteri meno felici e personali, che abbiamo creduto di vedere nel linguaggio e nel metro di queste liriche, mostrano a nostro parere ancora in fieri il pur felice processo sin qui seguito per attuare intera un’ispirazione cui abbiamo riconosciuto vena così seria e profonda.
Quanto questa vena sia ancora feconda di conquista creativa non è nostro compito giudicare; ma la qualità di queste liriche lascia prevedere che esse non ne resteranno l’unica testimonianza.
FERNANDO FIGURELLI
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