Requiem per il padre
Filippelli ha voluto farmi l’onore d’esser primo lettore della sua nuova raccolta, Requiem per il padre; e io vorrei che il mio pubblico ringraziamento fosse viatico a questo suo denso e autentico libro, lungo la strada che porta, se pur ve n’è ancora, ad una casa di edizioni non pornografiche né succubi ai luoghi comuni sociologistici. E sebbene non mi nasconda la difficoltà che una voce limpida e generosa come la sua trovi udienza prezzo destinatari simili a quelli cui egli allude nella lirica ‘Critici e poeti della mia patria’, io che critico non sono (e per questo posso permettermi di sdegnare le idées reçues alle quali troppi ritengono sia doveroso rendere omaggio e delle quali si sa quanto poco conto io faccia nel campo dell’estetica teorica che « solum è mio »). Oso sperare vi siano in mezzo a noi ascoltatori e lettori abbastanza spregiudicati da non negare a se stessi il cuore dell’uomo (mi consenta Filippelli di parafrasare prosasticamente due bei versi di quella che io chiamerei la sua Art poétique) e affidarsi all’incanto della sua voce evocatrice di affetti e stagioni e paesaggi: al suo poetare la realtà al di fuori del tritume realistico, e senza traccia, ormai, di declamazione sociale.
Poesia meridionale, quella di Filippelli, immune da facili meridionalismi e non contaminata dalla retorica e dalle ideologie; agreste, anzi georgica dove il gesto della fatica dell’uomo si iscrive nel paesaggio. Queste mie affermazioni esigono una prova documentaria e mi affretto a fornirla; non foss’altro per instradare lettori che ai sapori del pane e del vino non sono più avvezzi; e in tutti i libri che capitano loro fra le mani cercano materiali di sintesi, da adoperare sperimentalmente, secondo le ricette spacciate in botteghe sulle cui insegne, più o meno surrettiziamente, san figurate le effigi (non sempre tra loro concordanti) di Marx, Freud e De Saussurre …
Ho detto: poesia georgica - e ho aggiunto: senza retorica e senza ideologie; e immune da insopportabili populismi. Per questo, poesia in cui la realtà del lavoro si iscrive in immagine nella verità non realistica (grazie al Cielo!) dei paesaggi e delle stagioni.
Tanto basta a spiegare perché, non da oggi, della poesia di Filippelli sia consenziente lettore uno che i propri testi poetici è uso cercarli in direzioni ben lontane dal realismo sociale, per me insopportabile. E che il realismo sia lontano dell’arte di Filippelli, per lo meno quanto la soporifera sperimentazione linguistica, basterà a dimostrarlo la sottolineatura di certe metafore paesaggistiche: « … Mi mandavi alla fonte di campo di felci, / sulla strada battuta dalle ombre / d’una cattedrale di verde … » (la sottolineatura è mia); Hai seminato le ombre / della mia infanzia su queste maggesi .. »
(c.s.); « All’infanzia / dei cieli il suggello delle tue palpebre »; « .. mi parve / udire un vento leggero, / quasi un filo di gioia / sull’orlo delle foglie morte ».
Quella della cattedrale è metafora coltissima, da osservatore pensoso; e torna più volte, anche al di fuori del riferimento paesistico (o meglio, in un riferimento da paesaggio interiore, di quelli che Ortega, mi pare, chiamò una volta paesaggi dell’anima -): « … se ritrovo i tuoi pensieri / e s’aprono i tuoi giorni, / è come quando s’entra d’improvviso / in un fascio di luci / multicolori / sceso dalle vetrate d’una chiesa ». Davvero le visioni agresti di Filippelli, dove è ben presente la fatica dell’uomo chino sulle zolle, son tali che chi abbia voglia di declamanti invettive populiste potrà far magro bottino; e dovrà ascoltar ciò che forse non vorrebbe: « innocenza / rude degli amorosi / stornelli », sia pure frammista a un desiderio di « voci cupe e ferme, / che aspettano vendetta»; «il coro contadino del Dies irae » (e ancora: «la sorda violenza / della preghiera contadina ai numi / celesti delle piogge») alternate alle voci che argute conversano al termine della giornata, quando si allungano le ombre presso la masseria e stanno uomini e donne «a concistoro / sotto il gelso, saputi dell’annata … ».
Realtà, ho detto, senza realismo: ed è per questo che il paesaggio è in essa mutevole sfondo alle opere dei giorni e delle stagioni, come nelle immagini altra volta xilografate nei lunari, a ogni inizio di mese …
Potrei dire, a questo punto, che la sollecitazione dalla quale Filippelli è portato a poetare è una sollecitazione verticale, antitetica all’orizzontalismo oggi imperversante, quello che riduce l’uomo a macchina o, per valermi di una stupenda espressione di Leonardo, a «transito di cibo ». La qual cosa non significa che Fillippelli, come tutti, non viva in un tempo, e dunque in una storia: la storia di ieri e di ieri l’altro, in Cadde tutta la vigna da cui, forse, avrei lasciato cadere qualche aggettivazione di origine postrisorgimentale, non immune da sospetti di razzismo: rovesciato, ma pur sempre razzismo.
Parla, sia ben chiaro, uno che si vanta di aver modestamente partecipato alla Resistenza; e che se quei giorni tornassero, rifarebbe la sua strada di allora: ma per amore, non per odio d’altrui né per disprezzo,· e lasciando la teutofobia ad uno scrittore che non nomino; cui nemmeno la passione per la patria invasa,il dolore per i confratelli vittime dell’abominio nazista può far perdonare la frase: «nulla v’è di più bello che i cadaveri dei tedeschi . . .».
La storia di ieri l’altro, ma anche la storia di oggi, che non è storia: politica e sociale, ma è qualcosa di più, qualcosa di cui la politica è l’epifenomeno: storia di un’età che mi piacerebbe chiamare apostatica, in cui l’uomo ha mosso guerra alla natura, ripetendo il gesto folle dei Titani. E’ la storia che Filippelli vive poeticamente rinnovando in sé il dolore del padre quando era ancora in vita, dolore per «quel vasto abbandono delle cose» di cui ha sofferto il campagnolo che al figlio insegnò, seminandolo in lui, il «religioso stupore delle cose» (come nei contadini di Esiodo, di Virgilio, come in certi poeti latini dell’alto Medioevo: «Tempora florigero rutilant distincta sereno … »; « … collibus in nostris erumpant germina laeta . . .»): quel religioso stupore delle cose che fu della civiltà contadina, nella quale le cose erano vive, ed è stato annientato dalla tecnologia, produttrice di alberi finti. Pena del figlio poeta per la pena del padre; e pena del padre che rivive nella pena del figlio affacciato sui deserti autostradali: «E’ questa la mia pena: / che tu hai toccato / con le tue mani inutili e tremanti / l’agonia degli alberi, e hai veduto / passare l’anarchia d’una malerba / dove un tempo stendevi i tuoi maggesi / in simmetria amorosa / e disciplina vigile di semi. / Che tu hai veduto, o padre mio, morire / prima di te le tue creature … ». (Ho voluto sottolineare «agonia degli alberi »: una espressione della quale andrei fiero, se ne fossi io l’autore, talmente densa è di significato, pregnante di poetiche suggestioni, soprattutto per il lettore che in essa sa leggere il risvolto dei versi che chiudono l’intensissima lirica Dammi la forza di salvarmi il cuore: ({ … Sull’albero che sente / il peso dei suoi fiori / chìnati con la brezza del respiro … »).
Storia recente, l’agonia degli alberi: la storia di un ragazzo segnato dalla poesia che vide, con gli occhi appenati del padre, la fuga dalle campagne (Vanno i giovani a grasse / terre e femmine chiare . . . » ); di cui menarono vanto per anni certi santoni e i loro turiferari - gli stessi, magari, che dopo aver voluta quella fuga, rifiutandosi· di preparare a quei giovani; sulla loro terra, condizioni umane di vita, emettono inutili piagnistei, o declamano sanguinose invettive, oggi che i giovani di ieri, ormai ingrigiti, fanno ritorno alla fame loro e nostra: «… L’inquieta Europa li respinge / al deserto, ai cupi / disamori, alle speranze violente … ».
E in questa dolorosa testimonianza poetica di quelle che io chiamerei l’anabasi e la catabasi dei contadini meridionali, così intensamente sofferte nel cuore di un artista che è anche dei loro, c’è più verità (verità storica perché umana, perché del cuore) di quanta ce ne potrebbe essere in tutte le tiritere realistiche e socialmente impegnate.
Non potrebbe essere diversamente, del resto. La ve- rità del mondo, la verità del tempo e della storia Filippelli la trova là dove solo essa risiede: «in interiore homine »; e cioè nell’individuo. Nell’individuo, il cui gioire e il cui patire sono il senso autentico della storia e del mondo, in quanto storia e mondo vissuti nell’individuo che è prima e dopo la storia - perchè l’individuo è l’universale e l’eterno, mentre la storia è posta dall’individuo. Sto parlando dell’individuo come individuo - Io: « Io » nel senso fichtiano, di una filosofia che la stoltezza di certi nostri contemporanei aborrisce, cosÌ come nega l’Assolutamente Altro in cui l’Io si riconosce come l’acqua nella sorgente: l’Altro a cui Filippelli si rivolge in un discorso teso e scottante, nel quale non sai se sia l’imprecazione a tramutarsi in preghiera, o la preghiera a tramutarsi in imprecazione - e basti leggere i versi di Forse un rimorso da lasciar sepolto.
Mi auguro che queste mie parole dettate da ammirazione e da solidale comprensione accompagnino Filippelli verso un pubblico di consentanei lettori e non siano per lui compromissorie sì da fargli chiudere in faccia («il coraggio uno non se lo può dare . . . ») quelle porte che sarebbe giusto s’aprissero alla sua poesia.
Rosario Assunto
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