Renato Filippelli

dai fatti al web

Ombre dal Sud

Ancora una voce dal Sud. Dal « dolce Sud », come dice Filippelli. Questo inesauribile Sud: precipitato di millenarie sofferenze e frustrazioni e delusioni che pure riescono a filtrarsi in quintessenza di umanità, così saturo di storia da finire per sconfinare in una dimensione metastorica. Complesso, contradittorio Sud, fatto di vitalità come di accidiosa malinconia, di saporosa saggezza di patriarchi e di madri nero vestite come della più capziosa sofistica. È assurdo pensare di ridurlo ad una formula, a un denominatore comune che non sia la gran luce mediterranea (anch’essa, ambiguamente, rivelatrice e disseccatrice, generosa e avara).
Tuttavia, motivo dominante e persistente potrebbe essere, forse, per l’uomo del Sud, un destino di fedeltà.
Narratori e poeti, cineasti, pittori, antropologi, ci hanno resi ormai familiari molti aspetti dell’anima meridionale, Il Sud di Filippelli assomiglia a quello di altre voci dell’ esperienza meridionalistica, in cui però gli riesce di ritagliare un suo personale spazio.
La geografia indicherebbe il lembo estremo ai confini del Regno col vecchio Stato Pontificio; un paese di borghi arroccati su asciutte pendici. Ma la dimensione geografica non interessa Filippelli che come presupposto: il suo mondo è tutto antropologico, un mondo contadino abitato da presenze terrestri e terragne. Non vi appaiono capitelli e metope della raffinata archeologia insulare di Quasimodo, la cui lezione melodica e ritmica talvolta intride il sottofondo di Filippelli. Se è vera l’ipotesi di poc’anzi sul destino di fedeltà del meridionale, Filippelli è vero uomo del Sud. La sua è poesia di fedeltà, non solo nei contenuti ma anche nell’implicita poetica, anche nella compagine formale.
È esplorazione e ricerca di radici, di dolci radici - tra caro sentore di terra - e di non meno dolci legami di sangue con la famiglia, la gente. Luogo poetico di questa delicata e pur macerata ricerca di fedeltà è la centrale figura paterna, a cui sembrano ricondursi i lieviti e gli esiti più persuasivi e da cui gli stessi ritmi verbali sembrano attingere più librata misura. Esiti, a volte, di trepida grazia («la tua terra / ti sia sul cuore così lieve / che l’apra il vento, come cieli o vele »; «hai toccato! con le tue mani inutili e tremanti / l’agonia degli alberi»); avviamenti soavi («A luglio, di prima mattina, / che ancora c’era un fresco di stelle / bruciavamo le stoppie »; «Abito ancora la casa del molo, / mi corico sulla tua ombra / ascolto il vento … »; «Fa notte e gelo dove mi richiami. / Hai seminato le ombre / della mia infanzia su queste maggesi. »). Ne risulta un ritratto lirico davvero non convenzionale, specie dove l’immagine paterna si mitizza in lare agreste e pare fatta di terra e di foglie («A toccarlo / scrollava la rugiada come un albero»), e viene assunta favolosamente nella sfera del sacro («S’è inginocchiato per chiamare il sole. / Prima dell’ alba sparge di ginestre / gli altari dei suoi monti »).
Con la sfera del sacro, del resto, sembra coincidere l’area più suggestiva del terreno poetico di Filippelli:un sacro naturale prima che cristiano, ma nel quale potrà inserirsi senza scosse né disagi l’immagine di un Cristo di dolcezza e d’inquietudine, in conformità al felice sincretismo degli strati antropologici meridionali. È un sacro che lascia tra vedere densi e lenti gesti di patriarchi, larvate presenze archetipe, lontano snodarsi di processioni, rituali agresti; che ha i suoi bizzarri dèmoni terragni e persino i suoi animali mistici: le serpi viste nell’antica saggezza ctonica («Alla cappella della cava, / disse la Lesa, detta madonnara, / custode d’acque azzurre di miracoli: / «Hanno ucciso tutte / le serpi di questa terra. / Erano dolci silenziose, appena / sfioravano la luce / sapendo di dividerla con gli uomini»). A questo « sacro» teneramente larico possono forse ricondursi anche fatti espressivi come il prevalente uso di tempi passati (tempi lirici del più raccolto ricordo), come le pacate cadenze che nascono dal proverbiare ieratico dei personaggi (con illustri ascendenze letterarie nel salmeggiare di padron ‘Ntoni o nel sentenziare endecasillabico dei contadini pascoliani), come, infine, lo sciogliersi frequente del colloquio in ritmi assorti che riportano alla condizione della preghiera. Il lettore dovrà lasciarsi attirare, docile, nel cerchio magico di questa poesia e rendersi sottilmente attento a sorprendere, tra la cautela a volte quasi aulica degli epiteti, la freschezza più volentieri sommessa che vistosa di certe germinanti immagini; rendersi attento ad assaporare, entro un contesto ritmico di tradizionale e talvolta sin troppo « bella» canorità, la fragranza di certe invenzioni: proprio in certe pieghe riposte del discorso, infatti, la polpa verbale si fa più dolce e sapida. Offerti con mano lieve, i doni di Filippelli domandano a chi si accinga a recepirli mani altrettanto leggere.

Emerico Giachery

Lascia un commento

You must be logged in to post a comment.