Renato Filippelli

dai fatti al web

Renato Filippelli si racconta

Felice Londrino

Renato Filippelli si racconta

(Intervista al poeta aurunco)

Professore Filippelli, la successione delle sue opere poetiche
si inserisce nel filone della poesia del Sud: cosa è cambiato
dalle prime intuizioni fino al testo “Plenilunio nella palude”?
Che cos’è la palude?

Comincio rispondendo all’ultima domanda. Che cos’è la palude?
Evidentemente è un simbolo, ed è negativo; è un simbolo della
realtà in cui ci troviamo, di quello che il filosofo chiamerebbe il
“male storico”. Esistono momenti in cui la storia si ingorga e avvia
un processo di decomposizione. Il tempo in cui viviamo è il tempo
della decomposizione dei valori. In questa situazione, che ho definito storica, quindi oggettiva, ho inserito anche il mio male esistenziale. Il termine “palude”, nella sua accezione simbolica, va recepito in questo duplice significato di male storico e di male personale.
In questo momento della mia esistenza si è acceso il “plenilunio”.

In concreto, quali le diversità tra l’inizio e la Ime della sua attività poetica?
Esordii con il volume di poesie intitolato “Vent’anni”, che ho
quasi dimenticato; è una “felix culpa iuventutis” , perché non c’è
poeta che non debba dimenticare qualcosa del suo percorso. Poi ho
tentato una poesia di tipo post-ermetico, incentrata sul tema del
rapporto Amore-Morte. Parlavo di una donna alla quale davo il nome di Veronica, perduta nel fior degli anni. La poesia, in quel testo,
era concepita come un colloquio di tono flebile, elegiaco, con molte suggestioni letterarie; ma era già lontana dal dannunzianesimo,
che poi per molti anni ho dovuto sopportare come un’etichetta di
provenienza. Il dannunzianesimo, come éclat di aggettivazione e
pigmento, andava eliminato; e già ne “Il cinto della Veronica” io
avevo decantato il linguaggio, filtrandolo. Poi ho scoperto il tema
del Sud e, naturalmente, ho cambiato, con il tema, lo stile; ho cercato un linguaggio più realistico, più aderente alle cose, meno condizionato dalla poetica verlainiana della sfumatura. Raccontavo la
passione del Sud, una civiltà visitata dalla sofferenza e tuttavia custode coraggiosa di antichi filoni di saggezza. Mi rendevo conto (ormai avevo toccato il traguardo della trentina) che il linguaggio rare
fatto di cui mi ero compiaciuto nel il “Il cinto della Veronica” non
era adeguato a questa realtà corposa che faceva premura come un
sangue denso e vivo. Il libro che seguì segnò la vera data di nascita della mia poesia. Ebbe un bel successo. Il titolo era “Ombre dal
Sud”, perché io non mi ispiravo tanto all’antropologia a me coeva,
quanto alle ombre del passato, ai morti che avevano accompagnato la mia infanzia e mi pareva segnassero ancora la mia vita. C’è una
lirica in cui scrivo: “Cessate, o morti, di vegliarmi”. Ecco: io avevo
da loro un’impressione di protezione, ma anche di assedio, che mi
creava, a volte, una sorta di disagio, un senso di estraneità, di non
appartenenza alla realtà storica che mi circondava.

Perché la Terra Aurunca è terra di poesia?
La Terra Aurunca ha espresso pensatori ed anche poeti; poeti lirici non tanti, se ci riferiamo al passato. Tutti sanno che Suessa è stata la culla della satira, in quanto patria di Caio Lucilio: “Satura tota
nostra est”. Oggi non manca nella terra aurunca la poesia lirica, ma
io sono portato a credere che il temperamento sessano inclini non
tanto all’effusione lirica quanto alla tonalità satirica. Si è parlato di
“italum acetum”; io, se mi è consentito manipolare questa espressione, direi suessanum acetum”. E questo “aceto” si esprime naturalmente nel genere epigrammatico-satirico. Anche nella mia poesia
giovanile si coglie questa venatura.

Cosa rappresenta per lei “Cascano”?

In una delle ultime liriche della raccolta “Plenilunio nella palude” ho definito Cascano “nido e cuore della mia sera”. Per tutti esiste la piccola patria: Cascano è veramente la piccola patria della mia
anima. La ritrovo ogni volta con un’emozione nuova, anche perché
se è vero che ho lasciato il mio paese, seguendo l’esempio di tanti
altri, idealmente sono rimasto legato al luogo in cui nacqui, e non
ho mai avvertito la sensazione di essere stato abbandonato dai cascanesi. Ogni volta che torno fra loro, ho l’impressione che un cerchio di affetti mi stringa. Avendo trascorso un certo tipo di infanzia,
ed essendo stato uno dei pochi studenti che avessero dato un po’
di lustro al paese, subito mi si creò intorno una sorta di mito, che è
stato trasmesso alla nuova generazione. È vero, inoltre, che alcuni
miei testi scolastici sono stati adottati nelle scuole del Comune di
Sessa, e i più giovani hanno studiato su di essi; il feeling affettuoso
è, quindi, rimasto. Non mi vedo come il prodigo che non ha più referenti nella terra natale. Vi torno ogni volta con la sensazione consolante di un’appartenenza. Sono ancora “cascanese” a pieno titolo.

Lei vive oltre il confine” di questa terra: è forse l’esilio del poeta? Una necessità?
Non mi sento esule, anche se c’è stato un periodo in cui ho sofferto l’impressione dello “sradicamento” . In fondo, Scauri, dove ora
vivo, dista solo 27 km da Sessa e 30 da Cascano. Questa distanza è
irrilevante; ma può bastare a sradicare un uomo, perché l’ambiente
che frequento adesso è diverso da quello da cui provengo. Io però
posseggo una casa nella campagna di Cascano, e lì vado a raccogliermi, a lavorare, a rivisitare le ombre di cui parlavo prima, e così non ho la sensazione dell’esilio: ho superato il senso dello sradicamento, perché posso recuperare le mie radici, tutte le volte che
ne avverto il bisogno.

Per lei, essere poeta è stato più facile con questa sensazione dell’esilio?
Forse è proprio così. Io sono convinto che la poesia abbia bisogno di una particolare prospettiva. Finché ero a Cascano, non sentivo la poesia del paese, la bruciavo nel rapporto quotidiano. Adesso, posto alla giusta distanza prospettica, vedo quel mondo piccolo
e grande nello stesso tempo, microcosmo e macrocosmo, il paese
della memoria, il “nido e cuore”, di cui parlavo prima. La tua domanda è molto bella.

Professore Filippelli, cosa rappresenta quel motivo così insistente nelle sue opere del rapporto con il padre?
Il rapporto con il padre è una delle radici vive della mia poesia,
ma anche della mia esistenza. Il mio “Plenilunio” è un insieme di
colloqui che io apro con il “Padre” con la “P” maiuscola. Il piccolo
“padre”, quello terreno, spiana la strada al Padre di tutti. C’è una lirica della raccolta intitolata “Requiem per il padre”, in cui, rivolgendomi al mio genitore, dico: “O padre nostro che sei nel cielo/più
dolce e triste della terra”. Lo identifico, in maniera quasi blasfema,
con il Padre Eterno. E ciò significa che io sono vocato al filiale. In
una poesia, che anticipo per farti piacere, perché non è stata ancora pubblicata, dico che proprio in quanto “vocato al filiale”, sono
sempre stato un po’ “sbadato nel paterno”: mi sono sentito pienamente padre, solo nel momento in cui ho avvertito di essere, in un
certo senso, figlio dei miei figli, cioè da vecchio. Ora, se la premura più forte e autentica l’ho avvertita nella direzione della “filialità ” ,
ciò comportava l’esigenza della mediazione del padre. E così ho mitizzato il padre terreno, ne ho fatto l’emblema di tutta una civiltà
contadina, ma al tempo stesso ho capito che non bastava più questo tipo di rapporto, che dovevo spostarlo in verticale. Ecco come
ho scoperto il “fiato del divino”, la paternità divina. Questo bisogno
religioso, anche se serpeggiava, sottile, fra altri elementi, è sempre
esistito nella mia poesia, ed è riconducibile all’esigenza del “padre”
come “Padre”.

Perché ha dedicato il suo libro “Plenilunio nella palude” a Raffaele Nogaro?
Se non avessi conosciuto il Vescovo Nogaro, il libro non sarebbe mai nato. Mi spiego: una delle prime poesie di “Plenilunio” si intitola “Il volto scolpito”; a ispirarmela fu l’impatto improvviso che
ebbi con una scultura che rappresentava il volto del Cristo morente, inciso su una roccia della scogliera di Monte d’Argento, a Marina di Minturno. Scrissi immediatamente quella poesia e decisi di
leggerla a Nogaro, che l’ascoltò commosso ed ebbe parole di lode.
Avvertii allora nascere in me l’idea di un libro che fosse tutto un colloquio con la divinità nel suo aspetto più umano. Era l’anno 1989.
In quella casa di campagna, che adesso ho denominato “Domus patris” (e la paternità è nell’accezione larga cui accennavo prima),
ogni giorno scrivevo una o due poesie, dopo dieci anni di silenzio
poetico. Fu una gioia, questa riscoperta di una vena che credevo
estinta. Quando il libro fu terminato, lo sottoposi di nuovo al giudizio di Nogaro, che ne fu entusiasta. Ma io non ero disposto a pubblicarlo; ne soffrivo come di una nudità; mi sembrava di aver messo troppe cose allo scoperto. Pensavo che quello fosse un libro da
far uscire postumo. Avevo già scritto una lettera-testamento alla prima delle mie figlie, indicandole i percorsi da seguire per la pubblicazione dell’opera. Poi ebbi due infarti; guarito, pensai fosse doveroso pubblicare un libro che nasceva dalla luce. Ecco la ragione per
cui esso è anche, in un certo senso, di Raffaele Nogaro, apostolo
della fraternità.

Professore Filippelli, la poesia nasce solo dalla sofferenza?

La poesia scaturisce da sentimenti forti, da emozioni intense.
Ora, il dolore è un’emozione intensa, ma lo è anche la gioia. Nel
mio ultimo libro ci sono momenti di tristezza cupa, in cui ho l’impressione di essere già nella morte (”Aspetto/la mia deposizione,
già cammino/nella morte”), ma anche liriche in cui mi trovo in sintonia gioiosa con il fiato della divinità. Quando parlo di “agguati
della Tua luce dorata”, mi riferisco, sì, alla luce fisica, alla luce che
avvolge la mia campagna, valliva e collinare insieme, ma anche alla luce mistica della Grazia. Il Cristianesimo, nella sua essenza, non
è tristezza, è gioia. Non so spiegarmi perché tanto si insista sulla
iconografia della “Passio”, del dolore. L’Uomo crocefisso, è’ anche
l’Uomo risorto, il vincitore della morte. Non capisco, perché così
frequentemente sia chiamato in causa il “memento mori” in funzione terrifica. Se non sbaglio, nella Chiesa greco-ortodossa si dà molto più spazio al Dio risorto e all’esultanza che ne deriva. La nostra
sensibilità meridionale, che risente molto della sensualità spagnola,
insiste, al contrario, sulle immagini della Crocefissione. In Spagna,
ad esempio, abbondano i Crocefissi che grondano sangue; c’è una
sorta di assaporamento di fondo sadico in queste iconografie mortuarie. Ce ne dovremmo liberare, perché il Cristianesimo, ripeto, è
messaggio di letizia e di speranza. Ancora oggi è quasi un luogo comune dire che, se non c’è sofferenza, non c’è poesia. Io dico che la
poesia nasce da una radice emotiva molto forte. Ora, esiste la forza
del dolore, ma anche quella della gioia. Ne abbiamo un esempio
decisivo in campo musicale. Beethoven scrive la “Nona Sinfonia”,
definita un “torrente di fuoco”, e quando s’accorge che gli strumenti meccanici non hanno il potere di rappresentare tutt’intero il suo
fantasma mentale, ricorre all’elemento vocale, alla voce umana. Che
cosa inserisce? L”‘An die Freude”, ossia l”‘Inno alla gioia” di Friedrich Schiller.

Professore, il suo Dio è “Persona” e “Parola”, è padre generoso che non chiede “il prezzo del perdono”. Non nasconde forse l’immagine dell’Uomo che tutti vorrebbero, ma che non
c’è? C’è l’Uomo-Cristo in mezzo a noi?

Penso di sì, perché il Cristianesimo, a mio modesto giudizio (e
a questo proposito mi confortano anche alcune cose che ho letto in
Paul Claudel, grande convertito francese) deve la sua perennità al
fatto che è, nello stesso tempo, evento storico ed evento metastorico. La “Passio” di Cristo si rinnova continuamente, ogni volta che
c’è trasgressione. Il peccato è una crocefissione, è un altro chiodo
che si conficca nella carne di Cristo, così come la sua Resurrezione è la storia di una rinascita continua dell’umanità. Dunque Cristo non
può non essere in mezzo a noi. Voglio, a questo proposito, citare
una lettura che ho fatto sull” ‘Avvenire ” , proposta da Nogaro, che riporta un brano del Victor Hugo de “I Miserabili”. L’ex forzato Jean
Valjean ha rubato dei candelabri nella casa del prelato da cui ha ottenuto ospitalità. Arrestato dalla polizia, viene ricondotto nella casa
del Vescovo. Questi, per scagionare il ladro, dice che quei candelabri sono un suo regalo. Jean Valjean resta colpito profondamente.
Non credeva possibile tanta bontà. In quel momento egli ha visto
Cristo.

Quale differenza coglie fra poesia e religione? Sono entrambe le vie giuste per il riscatto?
La risposta è nettamente affermativa, perché, a ben guardare, non
si tratterebbe di due strade diverse. La poesia vera è sempre “religio”,
e non nel senso di superstizione. Dire “poesia religiosa” è una tautologia, perché la poesia è sempre un fatto ontologico. Abbiamo esempi clamorosi di poeti che si sono dichiarati atei, che hanno persino
celebrato Satana (penso a Carducci), e che poi hanno sentito il fascino di S. Francesco, del Cristianesimo autentico. Essi hanno avversato
soltanto il Cristianesimo deteriore, quello, ad esempio, delle Compagnie medievali dei Flagellanti, il fanatismo che spunta come un fungo velenoso sul tronco del genuino Cristianesimo.

Professore Filippelli, io non condivido certe letture critiche
della sua poesia, che collocano la sua opera “nel solco della
tradizione”; ritengo l’elaborazione e le immagini poetiche in
perfetta sintonia con la poesia novecentesca. Il suo linguaggio è straordinariamente personale e pienamente espressivo
dei motivi ispiratori, con la giusta dose di analogie, metafore,
similitudini, enjambements. Cosa può dire in proposito?

Che hai perfettamente ragione. La mia non configura un tipo di
poesia tradizionalistica; è una poesia novecentesca. Tutti gli strumenti espressivi che hai appena indicato sono presenti in essa. Una cosa
però ho evitato con cura, a partire da “Il cinto della Veronica”: l’oscurità programmata. L’oscurità può essere, nel discorso di un poeta, un
“incidente in itinere”, non può essere legata ad un programma, perché il poeta che decide di essere oscuro viene meno ad una delle funzioni essenziali della poesia, che è comunicazione, oltre che espressione. Non avendo mai programmato “l’oscurità”, non sono mai stato un ermetico “stricto sensu”. È anche vero, però, che non ho mai  scritto secondo certi schemi rigidi di tipo tradizionalistico, né mi sono mai compiaciuto di un linguaggio ingessato e scolastico. Ho fatto
largo uso della tecnica espressiva dei poeti del Novecento.

Io la considero espressione della poesia del Novecento, con una via del tutto personale. E’ d’accordo?
Hai colto meglio di tanti altri il tratto distintivo della mia poetica e della mia poesia.
Un suo pensiero per i giovani della Terra aurunca.
Posso dare qualche consiglio. Non abbandonino il messaggio
della tradizione, nel senso positivo della parola, perché il rischio
che le nuove generazioni, a mio giudizio, corrono, è di trovarsi come isole vaganti, senza punti di riferimento. Bisogna che essi riscoprano il messaggio dei padri. Può sembrare retorica e scontata questa frase, ma io penso che la salvezza sia in un sano recupero del
passato. Il che non significa nevrosi antiquariale. E per quanto riguarda Sessa, debbo dire che questo pericolo c’è. La nevrosi dell’antiquario consiste, per il sessano, nel considerare Sessa solo nell’ottica del passato, come se noi fossimo nati unicamente per custodire un retaggio. In realtà abbiamo l’obbligo di rinnovarlo, trasformarlo, renderlo sempre più vitale. Non possiamo rimanere inerti
depositari delle conquiste del passato; dobbiamo fare in modo che
esse rivivano nel presente. Auguro ai giovani l’energia necessaria
per utilizzare la lezione tradizionale in modo che diventi un propellente verso l’avvenire.

La Terra Aurunca è ancora Terra di cultura?
Penso che, tutto sommato, ancora ci siano dei fermenti. Certo,
si potrebbe fare di più. Ma è nell’indole del sessano, nel suo DNA,
una sorta di chiusura solipsistica, un individualismo esasperato, dal
quale, il più delle volte nasce l’invidia. L’invidioso, come lo ha definito in modo insuperabile Dante, è “chi si fa danno del ben fare
altrui”, nel senso che non solo non fa, ma non consente che altri
facciano. E questo porta al nulla di fatto per tutti. È un peccato, perché a Sessa le potenzialità esistono. Il sessano è un uomo intelligente, che dissipa le proprie energie, utilizzandole nel contrasto astioso con gli altri.

Cosa rappresenta la poesia nel mondo di oggi?

Purtroppo, come valore oggettivamente riconosciuto, non rappresenta molto. Il poeta del nostro tempo difficilmente trova udienza, stenta ad ottenere che un editore gli pubblichi a proprie spese
un libro, magari eccellente. Solo se ha un nome di richiamo trova
credito. Un tempo l’editore si metteva alla ricerca di giovani talenti.
L’editore Sommaruga, ad esempio, scoprì D’Annunzio. Adesso la
poesia ha cessato di essere un segmento di positività riconosciuta.
Alcuni surrogati hanno preso il suo posto; sono le cosiddette “religioni di sostituzione”, la falsa letteratura, quella che compiace certa
voracità malsana del grosso pubblico. Ciò non significa che la poenon abbia valore. La poesia, proprio perché è un valore autentico, in questa società sbandata e convulsa non trova lo spazio che
le compete. Montale, appena dopo il conseguimento del Nobel, riuscì a vendere 10.000 copie dei suoi libri. Fu un successo eclatante,
mentre per tanti altri prodotti letterari “sarebbe sembrato un fallimento. L’esempio dà la misura di come il prodotto poetico sia, da
molti anni, ai margini, in una sorta di periferia della società. È un
peccato, considerato che la poesia rappresenta il fiore della cultura,
la vera alternativa salvifica nel momento in cui stiamo perdendo il
nostro capitale spirituale. Oggi l’uomo diffida degli appelli all’interiorità, li considera ipocrisia. Forse la crisi mortale dei valori si ha
quando il valore autentico viene scambiato per la sua contraffazione, per la sua maschera.

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